lunedì 17 settembre 2007

Aria di rose


T.M.

Scultura: La solitudine dell'uomo


E' il posto dell'uomo al centro di una vita che non gli appartiene dove tutto è niente e dov'è egli stesso ad infliggersi le pene peggiori...

T.M.


Bassorilievo




















Dal disegno alla creta...

T.M.

Sundrenched World - Joshua Radin




Gustavo Giovannoni: L’immagine dell’Architetto

Gustavo Giovannoni opera durante uno dei periodi più bui della cultura italiana: il ventennio fascista. Il linguaggio classico che emerge in Italia dopo la fine della prima guerra mondiale rappresenta il punto di partenza per lo sviluppo del Razionalismo italiano. Gli architetti di questo periodo hanno come obiettivo comune quello di raggiungere una nuova e più razionale sintesi tra i valori nazionalistici del Classicismo italiano e la logica strutturale dell’epoca della macchina; ma non tutti tramutano questo obiettivo in una produzione architettonica totale e di alto valore.
Negli scritti di Giovannoni l’architetto appare come la figura integrale che debba comprendere in sé almeno tre componenti fondamentali: l’arte, la storia e la tecnica. Questi tre elementi si possono considerare alla base della crisi dell’architettura del XX secolo, il boom della tecnica, e l’accumularsi di numerose nuove esigenze a cui l’architetto viene chiamato a rispondere ha creato profonda confusione nel suo operare, le sue competenze si moltiplicano e così le necessità da soddisfare; molti hanno cercato di compiere una scelta, selezionare tra tecnica e arte, e naturalmente come fa notare Giovannoni l’errore principale sarebbe quello di mettere in disparte in questa scelta il ruolo della storia. Infatti la profonda conoscenza storica dell’architettura e del progredire di questa consente agli architetti di avere una visione d’insieme che li mette nella condizione di compiere nuove scelte, coscienti però di ciò che è stato, non necessariamente cancellandolo, ma neppure seguendolo come mito. Fondamentale dovrebbe essere la presa di coscienza da parte dell’architetto del modo in cui opera l’architettura nelle varie scale; prima di tutto egli dovrebbe vivere l’architettura dal punto di vista di colui che l’utilizza, il fruitore, il cittadino, pur tenendo presente la vastità dei livelli su cui l’architettura influisce, da quello territoriale a quello degli interni. Infatti Giovannoni sottolinea che nell’architetto «…il suo intelletto d’arte deve sapersi volgere tanto alle linee grandiose di un monumento quanto all’arredamento spicciolo di un interno…», ma per fare questo l’architetto deve rendersi conto di cosa significa tradizione, di cosa rende legata l’architettura al suo passato e cosa invece può renderla schiava di questo. La rivoluzione tecnologica della fine dell’800 ha profondamente cambiato lo sviluppo delle città ed il modo in cui l’architettura poteva adattarsi a questo. L’architetto entrava in una specie di crisi, doveva scegliere se assecondare la tecnica o continuare a legarsi alle solide radici della tradizione. Ma non sono sufficienti delle teorie che seguano un unico filone, un’unica “faccia” dell’architettura, per portare l’equilibrio nella crescita di un paese: l’architettura è cosa talmente complessa che presuppone l’organizzazione degli spazi secondo logiche che tengano conto dell’armonia delle relazioni che intercorrono tra questi, esige la presenza di tecnica e arte per rispondere alle esigenze dell’uomo. Fare della tecnica lo stendardo con cui muoversi nel XX secolo ha portato ad associare il soddisfacimento dei bisogni alla razionalizzazione delle forme. Difficile decidere anche cosa si intenda per razionalizzazione, se farne un metodo per generare modelli mirati al puro funzionalismo oppure uno strumento di controllo delle forme che organizzi gli spazi ad ogni scala basandosi su calcoli precisi, permettendo poi all’architetto di unirci lo spirito artistico che faccia del progetto un’opera e non solo uno strumento dei bisogni. Intendendo la razionalità secondo quest’ultimo obiettivo, ci si riferisce ad un processo che si costruisce sulla base di dati e di passaggi logici, di soluzioni ottimali rispetto al problema, e l’architetto è chiamato forse ad operare più in questo senso che non puramente alla ricerca di un linguaggio stilistico caratterizzato dall’assenza di ornato dalle superfici lisce ed unitarie che possa rappresentare al meglio funzione e periodo. E la razionalità era chiamata a rappresentare proprio questo, lo stile di un periodo, nello specifico quello italiano tra le due guerre, nel quale era messa in primo piano la necessità di nuova edilizia ed allo stesso tempo la rappresentazione del governo nascente, quello fascista. È probabilmente la combinazione di idealismo politico e valore militare che richiede un ritorno al Classicismo; ma come si vede nell’800 il Classicismo può essere strutturale (Henri Labrouste. Bibliothéque Sainte-Geneviève. Paris, 1838-50) oppure romantico (Schinkel), quando l’architetto decide di compiere una scelta tra funzione e senso estetico, tra struttura e forma, cosa che secondo Giovannoni era un grosso errore che poteva compiere un architetto non integrale. Questa scelta si ripropone appunto in un periodo come quello tra le due guerre, bisognoso di essere rappresentato ed esaltato. Perdere di vista dunque un obiettivo per prediligerne un altro, fare del ruolo dell’architetto quello del portatore di un nuovo spirito legato alle nuove esigenze, costituisce una spinta forte tale da strapparlo alle radici della storia della sua Arte. Però non tutti hanno operato secondo questa logica, personaggi come Wright hanno considerato l’espansione della città un fatto abominevole, un sacrificio al paesaggio. Ed è questo che deve forse fare l’architetto, ovvero commisurare il rapporto tra il luogo e l’edificio, operando sì dall’interno all’esterno, dalle esigenze reali alle espressioni d’Arte, come osserva Giovannoni, mantenendo però un carattere organico che non faccia di queste produzioni delle nuove macchine industriali in cui vivere. È importante dunque sottolineare che dal momento che l’arte architettonica diventa una formula artificiosa richiede quindi un insegnamento, ecco perchè Giovannoni nei suoi scritti insiste molto sull’importanza della cultura trasmessa agli architetti del ‘900. Questo non era necessario quando lo stile si trasmetteva ed evolveva naturalmente, ma nel XX secolo possiamo individuare rari casi, come ad esempio nella formazione di Wright, in cui la preparazione artistica, la conoscenza tecnica e quella storica dell’arte germogliano progressivamente grazie a stimolazioni che lo accompagnano sin dai primi anni di vita, quando la madre lo incoraggiava alla composizione con blocchetti modulari, cosa che secondo Giovannoni era fondamentale in quanto «…la preparazione artistica deve avere l’assoluta predominanza…un giovane può formare il proprio gusto ed acquistare un equilibrato senso delle proporzioni…quanto prima egli potrà appunto essere iniziato ad esercizi pratici ed elementari di composizione... ». Crescendo, Wright riesce a prendere la giusta distanza dalla tradizione, ne ingloba le componenti e sfrutta ogni elemento per valorizzarne la propria forza, crea dunque espressioni nuove con linee ed elementi conosciuti, un sapiente sguardo alla tradizione senza fermarsi su di essa ma compiendo una sapiente evoluzione dello stile. Osservando però il modo di operare di altri architetti ci si accorge come lo stesso Gropius sembra vivere sotto la duplice spinta di tradizione e funzionalismo, di arte e tecnica, cosa che ci può rendere perplessi di fronte alla sua produzione; egli è interessato a rivalutare le arti minori, creando anche una scuola come il Bauhaus, ma allo stesso tempo nega fortemente il legame tra architettura e arte come si sviluppa nella produzione di Le Corbusier. È dunque naturale presumere che egli faccia del rapporto con l’arte una conoscenza intrinseca che non riguarda le forme, mentre allo stesso tempo Le Corbusier insiste sulla parte Pdeuso-scientifica delle nuove figure, ricerca una legge di geometria elementare che coesista con il suo concetto di machine à habiter, esaltato quale fondamentale obbiettivo per assicurare alla gente una comunione tra vita domestica e vita lavorativa, un programma di regolamentarizzazione e di omologazione di funzioni sociali e di sensibilità individuali: l'abitare come agente di equilibrio sociale dentro e fuori il nucleo della famiglia.
Gropius fa dello stile, in questo caso il razionalismo, «una tecnica infallibile, la cui condizione che la determina e giustifica è la constatazione della crisi, innanzitutto crisi del sentimento» (Giulio Carlo Argan,”Walter Gropius e la Bauhaus”, Einaudi, Torino, 1951), un’opera quella di Gropius che s’inquadra nella crisi dei grandi ideali dopo la perdita della guerra, dove egli vuole fare dell’architettura uno strumento per una nuova organizzazione sociale. La razionalità è un metodo che gli permette di localizzare e di risolvere i problemi che l’esistenza viene continuamente ponendo, mentre per Le Corbusier la razionalità è un sistema per tracciare grandi piani che dovrebbero eliminare ogni problema. Il contrasto tra i due punti di vista si manifesta anche nei caratteri esteriori: Le Corbusier lancia proclami, pubblica manifesti, Gropius invece si chiude nella scuola, trasforma la sua teoria in una precisa didattica, la sua logica in una tecnica. Dal punto di vista dell’esaltazione della tecnica anche Giovannoni segue questo pensiero sostenendo che «l’adozione di un nuovo stile dipende dall’evoluzione della tecnica e non da quella delle arti architettoniche o visive», ma in modo altrettanto chiaro, secondo le sue idee si denota come nell’opera di Gropius manchi un giusto equilibrio tra le tre parti fondamentali del bagaglio di un architetto (storia, senso estetico e tecnica) e finisce quindi per prediligerne una che lo porta ad osservare un unico lato espressivo dell’architettura, rendendola di conseguenza fondamentalmente povera di significato e arida di sentimenti. Tornando quindi alla questione del fruitore, l’anima della produzione architettonica e ciò che la lega e la caratterizza al periodo in cui essa viene a svolgersi, ricerca del nuovo, funzionalità ed allo stesso tempo studio del passato, sono le cose che vendono richieste ai progettisti anche al giorno d’oggi, ma quando tutto ciò si tramuta in architettura l’architetto si trova di fronte al problema della tradizione contro l’omogeneizzazione. I nuovi luoghi che vengono a formarsi sorgono dalle esigenze delle persone di azzerare il loro senso di spaesamento, in un periodo in cui la gente si muove freneticamente da un luogo ad un altro l’esigenza principale è quella di sentirsi a casa, ed ecco che i luoghi assumono sempre più una valenza importante per l’individuo che li attraversa. Vige una sorta di “impero del presente” il cui fine è quello di tranquillizzarci, proponendoci la visione di un mondo costantemente sotto controllo. Come nella ripresa del classico, quindi, si rimane oggi ancorati a delle regole fisse, quelle della globalizzazione che, a differenza di uno stile, in cui i principi caratterizzano la formulazione di idee innovative, ma risultano funzionali perché strutturalmente corrette, queste nuove regole limitano la creatività ad una produzione praticamente seriale di luoghi che svolgono la funzione “nascosta” di far sentire le persone a “casa”. La logica rimane la stessa, l’architetto sente di dover compiere una scelta, e a volte lo fa in modo involontario spinto dall’impulso che prevale nel mondo, spinto dalle necessità impellenti, e se l’architetto non è così forte, o così preparato come Giovannoni lo indica professionalmente, cioè un architetto integrale che faccia della sua produzione un’opera completa, se in poche parole non riesce leggere dentro di se le matrici della storia come guida prima, l’impulso lo getterà a creare delle macchine, oppure delle opere d’arte fini a se stesse. La globalizzazione annienta l’identità dei luoghi, e l’architetto è chiamato ad arrestare questo processo, a generare luoghi confortevoli perché organizzati per rispondere ad esigenze concrete, ma rivestiti di bellezza che si fonda su regole comuni, “classiche”.
Come fa notare Giovannoni la produzione del ‘900 non riesce a mantenere l’antico ed allo stesso tempo non sa fare della nuova produzione degna delle basi da cui dovrebbe essere tratta, un’architettura che dovrebbe essere «dominata dalla proporzione perfetta», leggi del ritmo che sappiano fare di un disegno, seppur semplice, un’opera ricca di significato, pregna di tecnica quanto di senso estetico, artistico nonché coscienza storica dell’arte.

T.M.

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