sabato 8 settembre 2007

Bulimia nervosa

Che cosa è la bulimia nervosa?
La bulimia nervosa è un grave disturbo d
el comportamento alimentare caratterizzato da una tendenza autolesionista per mezzo di una alimentazione smodata unita ad una ricorrente ossessione di tenere sotto controllo il proprio peso. Si può manifestare in concomitanza con altre patologie psichiatriche come “disturbo bipolare”, autolesionismo, “disturbo ossessivo”, “disturbi dissociativi dell’identità”. L’alimentazione smodata si può definire come la tendenza ad assumere grandi quantità di cibo in breve tempo. Si tende spesso a prediligere i dolci, cibi ipercalorici e con una consistenza che ne faciliti l’ingestione in breve tempo. Lo “sconveniente comportamento compensativo” a controllarsi continuamente il peso si accompagna a volte a pratiche “liberatorie” (vomito procurato, abuso di lassativi, diuretici, clisteri) o pratiche “non liberatorie” (come eccessive pratiche ginniche). Per coloro che praticano un’alimentazione smodata a volte qualsiasi quantità di cibo, anche mezza mela o in insalata, viene percepita come smodata e vomitata. Le persone affette da bulimia nervosa spesso mancano di autocontrollo quando mangiano in modo smodato. Quasi sempre assumono i pasti in segreto trangugiando e con poca masticazione. Al termine dell’abbuffata si manifestano spesso dolori di ventre. Al termine del pasto i bulimici provano un senso di colpa e si liberano dall’eccesso di calorie. Si può ipotizzare la presenza della bulimia quando una persona assume almeno due pasti smodati alla settimana per almeno tre mesi. Le maggiori problematiche che caratterizzano i disturbi del comportamento alimentare sono l’importanza assegnata al cibo ed al proprio peso con priorità su tutti gli altri problemi personali.

Quali sono i soggetti alla bulimia?
La Bulimia nervosa si manifesta in genere nell’adolescenza. Come per l’anoressia nervosa colpisce principalmente il sesso femminile. Solo dal 10 al 15 % della popolazione affetta è di sesso maschile. Si stima che il 2 / 3 % delle giovani (stime USA n.d.t.) sia affetta da bulimia contro lo 0,5 / 1 % affette da anoressia. Ricerche hanno stabilito che circa il 50 % delle persone sofferenti di anoressia tendono poi ad essere affette da bulimia. Si ritiene che più di sette milioni di donne e un milione di uomini (stime USA n.d.t.) soffrono di queste patologie solamente negli Stati Uniti. Da qui nasce la necessità di un’opera di prevenzione soprattutto nelle scuole, prevenzione particolarmente rivolta alla popolazione femminile.

Come controllano il loro peso i bulimici? I bulimici sono ossessionati dalla linea e dal loro peso. Fanno continui tentativi di tenere sotto controllo il peso per mezzo di diete. Ricorrono al vomito, a medicinali per stimolare le funzioni intestinali e alla diuresi, a esercizi ginnici spinti all’eccesso. Le fluttuazioni di peso sono una caratteristica a causa dell’alternarsi di pasti smodati e pasti ridotti. A differenza di chi soffre di anoressia i bulimici mantengono un peso entro limiti di normalità. Nondimeno molte persone sovrapeso che si sono sottoposte ad una dieta iniziano a vomitare per mantenere il peso raggiunto.


Quali sono i sintomi più comuni della bulimia?

Una costante ossessione di tenere sotto controllo il peso ed il cibo sono i sintomi primari della
bulimia. L’erosione dello smalto dei denti (dovuto all’acido del vomito) e l’abrasione del dorso delle mani ( causato dalla ripetuta introduzione delle dita nella gola) sono indicatori comuni della tendenza a procurarsi il vomito. Una modesta percentuale di bulimici mostrano un gonfiore delle ghiandole paratiroidi vicino alle guance. I bulimici possono anche soffrire di irregolarità nei cicli mestruali e di una diminuzione dell’attività sessuale. Vengono spesso rilevate delle forme di depressione così come mal di gola e dolori addominali. Nonostante questi sintomi rivelatori, risulta difficile accorgersi dell’insorgere della bulimia. Il mangiare smodato e il purgarsi o il vomitare viene spesso fatto in segreto e può essere facilmente tenuto nascosto da una persona con un peso nella norma che si vergogna del proprio comportamento ma che si sente costretta a continuare per tenere sotto controllo il proprio peso. Questa preoccupazione e questo comportamento consentono alla persona di spostare la propria attenzione da sensazioni di dolore e ridurre la tensione e l’ansia perpetuando la necessità di questi comportamenti.

Vi sono gravi complicazioni per la salute?
Le persone affette da bulimia, anche quelle che mantengono un peso normale, possono causare gravi danni al proprio fisico per il frequente ricorrere al vomito ed ai lassativi. Scompensi “elettrolitici” e disidratazione si possono manifestare e causare problemi cardiaci e, a volte, portare alla morte. In rari casi il vomitare può provocare lesioni allo stomaco ed il ricorrere ai lassativi può procurare disfunzioni cardiache a seguito di perdita di minerali vitali come il potassio.

Conosciamo le cause della bulimia?
Di certo la presenza nella nostra cultura di una
mania per la magrezza ha la sua influenza.
Esiste qualche indizio che l’obesità infantile e quella dei genitori predispongano gli individui a sviluppare la bulimia. A volte la preoccupazione dei genitori per un figlio eccessivamente grassottello può costituire una causa. Alcuni bulimici percepiscono una sorta di euforia quando vomitano. A volte i bulimici non riescono a controllare l’assunzione di alcool e droghe. I disturbi del comportamento alimentare come l’anoressia e la bulimia tendono ad essere ereditari e le ragazze risultano essere più soggette. A seguito di studi recenti i ricercatori hanno accertato in alcuni bulimici la diminuzione di alcuni neurotrasmettitori (serotonina e noradrenalina). Molto probabilmente la combinazione di fattori ambientali con quelli biologici portano allo sviluppo di questo disturbo. All’inizio degli anni settanta la maggior parte delle persone affette da questi disturbi era convinta di essere l’antesignana di questi problemi. Come per l’anoressia nervosa, i comportamenti associati alla bulimia consentono un temporaneo sollievo dalle tensioni e permettono ai malati di allontanare la loro attenzione da altre problematiche percepite come irrisolvibili, concentrandosi invece sui problemi del peso e del cibo.

Sono disponibili cure per la bulimia?
La maggior parte delle persone che soffrono di bulimia possono essere curate ambulatoria
mente dal momento che non corrono il rischio di lasciarsi morire di fame come gli anoressici. Tuttavia, se la bulimia sfugge al controllo, il partecipare a una psicoterapia di gruppo per la cura degli scompensi alimentari può aiutare i bulimici a modificare le loro abitudini alimentari. Le terapie di gruppo sembrano aver dato i migliori risultati per le adolescenti e le donne di giovane età per la comprensione reciproca che si stabilisce tra i membri del gruppo. Nelle terapie di gruppo viene offerta la possibilità di dialogare con altre persone con gli stessi problemi. Le terapie di gruppo hanno dato migliori risultati anche con gli studenti. D’altro canto gruppi di auto-aiuto possono essere frequentati per quanto tempo si vuole, offrono orari flessibili, e generalmente sono gratuiti. A volte le persone affette da disturbi del comportamento alimentare sono incapaci di avvicinare gruppi di auto-aiuto o frequentare delle terapie di gruppo senza l’incoraggiamento di uno psicoterapista. Una psicoterapia “cognitivo-comportamentale” è risultata di aiuto a molti bulimici. Si apprende a concentrarsi sull’autocontrollo delle abitudini “liberatorie” e alimentari così come a cambiare l’errato approccio al disturbo. La terapia “cognitivo-comportamentale” viene spesso associata ad una consulenza del dietologo e ad antidepressivi come la fluoxetina (Prozac). Un piano terapeutico dovrà essere preparato a seconda delle necessità della singola persona e certamente un piano di cure che coinvolga la consulenza di vari specialisti darà i migliori risultati.
E’ importante sviluppare un approccio alla malattia che coinvolga il supporto dei famigliari del malato e della comunità (gruppi di auto-aiuto o altro genere di supporti messi a disposizione dalla società).

Non riuscite a dire no? Dovete imparare

Chi acconsente sempre ad ogni richiesta, chi nasconde il proprio dissenso, non è una persona «molto gentile»: è, piuttosto, qualcuno che non rispetta se stesso

Dite di sì quando vorreste dire il contrario? Vi considerate così gentili da dover negare a voi stessi qualsiasi sentimento di rabbia? Sono alcune delle domande con cui Corinne Sweet, nel suo libro "Come dire di no" (2004, Gruppo Editoriale Armenia), invita il lettore a riflettere per capire se è vittima della difficoltà di dire di no. Sembra un problema psicologico banale, ma in realtà non lo è. E riguarda molte persone.
L'autrice individua quattro trappole che ci spingono a dire di sì controvoglia: voler essere gentili; voler essere amati, rispettati, accettati; la paura di perdere amici, amanti, lavoro, famiglia; la sensazione di non avere il diritto di dire di no. Il libro ha le caratteristiche di un manuale pratico. Corinne Sweet, giornalista e coordinatrice di gruppi di counseling, adotta un orientamento cognitivo-comportamentale: è dell'opinione che il modo di agire possa essere modificato intervenendo sui pensieri e invitando il lettore a sperimentare nuovi modelli di comportamento.

Come rimedi, prescrive frasi da mandare a memoria come mantra, o esercitazioni in cui si dovrebbe agire "come se". Cioè come se fossimo già sicuri di noi stessi e assertivi fino a quando il nuovo comportamento si rinforza, sovrasta le vecchie abitudini, diventa spontaneo. Il manuale è ricco di esempi: l'autrice ricostruisce dialoghi tipici in cui si nota l'esito del dire di sì; poi la stessa situazione viene ripetuta, questa volta con l'uso del no.

Scelte
Riguardo alla necessità di modificare il proprio comportamente, commenta:
«E' sol una questione di scelta. Se riuscite a fermarvia a chiedervi "E' questo che voglio?", saprete agirea per il meglio dal prossimo minuto». Ma è davvero facile cambiare? Lella Ravasi Bellocchio, scrittrice e psicanalista junghina del CIPA (Centro italiano di psicologia analitica), risponde: «Il cambiamento è un processo che dura tutta la vita. Quello vero, interiore, richiede lapazienza di passare attraverso i diversi stadi della trasformazione e l'intelligenza per saper riflettere su di sé». Per la donna spesso è più difficile dire di no, il motivo? «La donna - spiega Ravasi Bellocchio - è spesso in conflitto con una parte di sé, il lato materno accogliente, che la spinge a mettersi nei panni dell'altro.

Per poter dire di no deve allontanarsi dall'identificazione con l'altro e ritrovare la propria autonomia, che non vuol dire egocentrismo, ma capacità di focalizzarsi su se stessa, avere rispetto verso se stessi». L'eterno dibattito relativo al mettere al primo posto se stessi o gli altri può trovare soluzione in un ragionevole equilibrio mediano.

L'importante è riuscire a scegliere consapevolmente l'atteggiamento da adottare e non sentirsi schiavi della compulsività. La socio-psicologa Paola Leonardi, fondatrice del Centro Autostima Donna (Milano) ritiene che l'aumento dell'autostima, storicamente carente nella donna, sia un traguardo importante per evitare le trappole del sì. Rinvigoriti dall'autostima, si inizia a credere che il no non porta necessariamente all'abbandono e, se dovesse accadere, avremo fiducia nel fatto che riusciremo a crearci nuovi affetti. «Nel rapporto uomo-donna - aggiunge - ci sono aspettative reciproche che rendono difficile dire di no.

Questo è tipico di una relazione tradizionale in cui la divisione dei ruoli è stereotipata». Passiamo all'infanzia: i "no" dei bambini sono solo capricci? «Nel periodo dei no a oltranza è importante lasciare esprimere il bambino, perché la scoperta di questa nuova difesa dal potere che i "grandi" hanno su di lui segna l'inizio della autodeterminazione, un passo importante nella formazione del senso di sé . Viceversa, è rilevante che il genitore sappia dire di no al bambino, spiegandone le ragioni, per insegnare al figlio ad accettare limiti, regole, per abituarlo alla natura reale e ordinaria del dissenso nell'esistenza».

Conformismo
Il dissenso si affronta quotidianamente, viene naturale pensare che non sia solo un problema dell'individuo, ma abbia anche una dimensione sociale. Michele Stufflesser, psicanalista della SPI (Società psicoanalitica italiana) e primario psichiatra all'ospedale di Sesto San Giovanni (Mi), spiega: «Dire di no è importante per difendersi dal conformismo. Nella nostra società, sempre più competitiva e consumistica, c'è spesso un'adesione acritica a un modello culturale narcisistico. Può essere importante fare l'elogio dell'indignazione, cioè dire di no a quello che sentiamo sbagliato e inaccettabile. C'è un appiattimento delle idee che porta all'indifferenza e all'acquisizione di un pensiero prevalentemente centrato sulla concretezza e sull'esteriorità. Manca lo stimolo per recuperare convinzioni personali». Ma in che misura si dovrebbe dispensare il sì o il no? «Dire troppi no rende l'individuo rigido, incapace di accettare l'altro diverso da sé. Pronunciare troppi sì, invece, può essere espressione di un atteggiamento psichico onnipotente per cui non esistono limiti e regole» conclude Stufflesser.

Curare le relazioni pensando al 'noi'

I rapporti devono beneficiare del rispetto delle individualità, senza però danneggiare il significato simbolico e operativo della solidarietà

Come possiamo curare il "senso di noi" in un periodo denso di individualismo in cui l'interpretazione psicologica rinforza l'idea che le soluzioni che per prime vanno cercate sono rivolte alla protezione dell'Io, mentre vanno in seconda linea i rinforzi e il sostegno alle sensazioni di "appartenere, di sentirsi parte, dell'andare insieme". Se il modello prevalente è separativo questo non riguarda il divorzio delle coppie, am diventa un modello che va a rompere lo schema dell'altruismo nelle relazioni.
I rapporti devono beneficiare del rispetto delle individualità, senza però danneggiare il significato simbolico e operativo della solidarietà. Immaginare un mondo in ci eprimendo me stesso posso anche riconoscere e rispettare la vita degli altri e in particolare quella delle eprsone che amo, rappresenta forse un'utopia, ma densa di buon significato.
La costruzione di una reciprocità amichevole lascia inalterata la cura del proprio processo di individuazione se pensare e agire ricevono una legittimazione pur nella loro differenza senza il bisogno di ridurre tutti ad un unico copione. L'interpretazione psicologica non è innocente nel dare spazio ad alcune cose rispetto ad altre, così come non lo è la competizione continua che la televisione offre mostrando nei reality show, convivenze che mettono gli uni contro gli altri. Si vive insieme ma con l'obiettivo di
tradire, di legarsi, di creare alleanze non come modello solidale, ma con l'obiettivo finale di vincere contro gli altri. Il modello della mediazione dice che si vince solo se vincono tutti, se esistono opzioni diverse e se è il "vivere con" e non il "potere contro", l'obiettivo della nostra fatica.

Individualità e rispetto
Nella vita delle coppie si può essere tentati di riprodurre un modello di opportunismo mascherato. Per tradizione dell'interpretazione psicologica il rapporto di coppia può essere costruito inizialmente in modo riparativo, per cercare di sanare gli aspetti che sono feriti dentro di noi, creando un modello relazionale con compiti curativi e di compenso e questo viene considerato un motivo importante nella creazione della coppia. I problemi arrivano quando per argin
are le difficoltà che nascono dalla delusione e dal dolore si tende a rientrare nel nostro "copione doloroso". Al posto della persona reale che abbiamo davanti poniamo il modello della relazione che ci ha fatto soffrire e che abbiamo subito in infanzia.
Da quel momento il pensiero interno si nutre della ripetizione interpretativa che
abbiamo usato in infanzia: l'altro è quello che ci fa soffrire senza motivo, che ci trascura, che non è come desideriamo e per reggere il dolore della delusione attuale rendiamo il/la partner sempre più simile al vecchio copione e al vecchio attore. Ripetiamo i comportamenti che erano stati utili per sedare l'ansia, interpretiamo i gesti, le parole in modo da assimilare quello che stiamo vivendo a ciò che abbiamo già vissuto. Il dolore, la paura di non essere capaci, di sedare la sofferenza che potrebbe arrivare ci porta a preferire una interpretazione del comportamento dell'altro/a simile a quello che abbiamo già conosciuto e sopportato e da cui siamo sopravvissuti. In quel momento la persona reale davanti a noi sparisce. A lei sovrapponiamo una maschera, riproduciamo i significati in modo da rendere prevedibili i modi cattivi; li interpretiamo in direzione di quello che sappiamo controllare e reggere. Ed è il primo segnale della depersonalizzazione dell'altro, non lo guardiamo più, a lui si è sostituito il vecchio copione e non la persona che vediamo.

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