Mi domando quando è arrivato quel momento in cui ho smesso
di ascoltare me stesso. Quand'è che quell'assurda ossessione per l'approvazione
altrui ha preso il sopravvento.
Una volta mi bastava chiudermi nella mia stanza, sedermi per
terra e restare in silenzio ascoltando i miei pensieri. Potevo stare così per
lunghi minuti, anche delle ore, osservando attorno a me, quello che mi
circondava, le cose a me più care, cercando di captare le vibrazioni, quelle
provenienti dal passato, quelle che permeano ogni oggetto grazie alle emozioni
forti che abbiamo riversato su di essi. In realtà ascoltavo me stesso, cercavo
di capire quello che non riuscivo a dire; scavavo nella mia testa per far
emergere quelle emozioni che non ero capace di esternare, semplicemente perché
non ero abituato, e quindi in qualche modo mi bloccavo, per cercare una chiave
d'uscita da quella stanza in cui mi ero imprigionato da solo.
Ho smesso di farlo, o comunque di farlo con la stessa cura
con cui lo facevo da piccolo. Ed ho sostituito quei momenti di riflessione con
esplosioni di parole. Parole che mi escono di bocca senza che nemmeno me ne
accorga. Veri e propri fiumi incontrollati senza un percorso da seguire, che
tracimano dagli argini ad ogni curva e sembrano ingrossarsi via via che
procedono, prendendo forza non si sa da dove. Resto tramortito da queste valanghe
di emozioni che non si fanno contenere, e solo ora mi rendo conto che una volta
riuscivo ad imbrigliarle senza troppa fatica. Le tenevo strette, chiuse dentro
di me. Certo ogni tanto sgusciavano fuori, con qualche debole lacrima, che mi
sbrigavo ad asciugare. Eppure era quello che mi aiutava già a stare meglio, mi
liberava gli occhi dal velo che aveva offuscato la vista, e mi permetteva di
vedere un pochino oltre, e farmi sentire il cuore un po' più leggero.
Sarà forse il peso delle cose che è cambiato, la sostanza di
cui sono fatte le emozioni, o sarà semplicemente il fatto che dentro di me non
c'è più spazio. Sta di fatto che se mi guardo dentro comincio a soffocare, e
quindi l'unico modo per sopravvivere sembra quello di dover aprire bocca e dar
sfogo a tutto quello che non riesce più a restare dentro. Sarà giusto. Sarà
Sbagliato. Io non riesco più a capirlo.
Non so quando ho smesso di osservare il mio dolore. Quando
ho smesso di accettarlo. Di sedarlo, anche solo per un po' di tempo. Fino a
quando fossi sicuro che non poteva più nuocermi. Non che sparisse, questo mai.
Però potevo dimenticarmene per un po', e quindi stare meglio; o comunque si possa
chiamare quella sensazione che ti alleggerisce il cuore, per mostrarti quella
luce che c'è ancora fuori, e che tu avevi smesso di vedere.
Quante emozioni albergano nel nostro cuore, e quante
riusciamo a non vedere, per un po', come inquilini che non pagano l'affitto, fino
al punto in cui però siamo noi che ci vediamo costretti a chiederne il conto?
Che opinione abbiamo di noi stessi, di quella persona che
procede nella vita dimenticandosi di un dolore che non si può cancellare nel
nome di una felicità momentanea?
Siamo disposti a sbagliare, e crediamo che le nostre scelte
ci condurranno verso una strada in cui i nostri passi verranno cancellati senza
necessità che possiamo voltarci indietro ricordandoci da dove siamo venuti. E
tutte le grida, le porte sbattute, la strada percorsa senza una direzione,
quando smetteranno di assumere quel debole significato di disperazione che
copre i silenzi del nostro cuore? Perché lui continuerà a parlarci, come una
volta, dentro di noi, anche quando non siamo disposti ad ascoltare. Quella
vocina continuerà a chiederci tempo; tempo per restare in silenzio, guardarci
dentro, ed osservare attorno a noi quello che ci fa piangere, e quello che ci
fa arrabbiare. Osservare, senza emettere giudizi, con le labbra serrate; fino a
quando una debole lacrima non riuscirà a solcarci il viso, liberandoci
dall'aridità in cui eravamo imbrigliati, e facendoci recuperare un sospiro di
sollievo, grande come se non avessimo mai respirato prima, che ci riempie i
polmoni, e ci fa capire che siamo ancora qui, pronti per rimediare, senza la necessità
di dimenticare.
T.M.